Avete presente il detto “Mai giudicare un libro dalla sua copertina?”.
Ecco, a me quel detto non piace affatto.
Io la copertina la guardo quando vado in libreria. Non lo giudico, il libro. Guardo la trama, guardo il titolo. Ma una bella copertina, con un disegno accattivante, mi attira subito.
Secondo me anche la copertina ha un suo ruolo: non mi dice quale è la “sostanza” del libro, ma con un solo tratto, la copertina per l’appunto, mi invoglia ad avvicinarmi oppure no, a sfogliarlo oppure passare a quello dopo.
Un libro bianco, con il solo titolo, sta urlando “Sono serio”, mentre un libro sbrilluccicoso mi sta informando “Sono un po’ frivolo”. Almeno questa è l’idea che mi faccio io, e sono certa che in molti staranno sbuffando. Però l’idea di frivolezza guardando ad una collezione “Harmony” non credo venga solo a me.
Quel detto non mi piace proprio. Forse non mi piace perché parla di libri e io nei libri vivo, così come nella scrittura.
Se invece si parla di giudicare una persona dal suo aspetto, allora le cose cambiano. Ma, nel fondo, un minimo denominatore comune c’è: come vorrei non soffermarmi sulla copertina, vorrei non soffermarmi su un aspetto solo della personalità degli altri.
Ma alla fine noi tutti lo facciamo comunque. Più che un detto, mi sembra un monito per qualcosa che ognuno di noi fa ogni giorno.
O bianco o nero: l’effetto Horn.
In un altro articolo ho parlato del nostro mondo e di come esso sia fatto di contrari e poche sfumature. Tutto o niente, bianco o nero, vero o falso, buono o cattivo.
L’effetto Horn, così si chiama, in qualche modo rientra proprio nel nostro mondo di coppie contrarie. L’effetto Horn ci dice “Quella persona è brutta, allora è anche antipatica”. L’effetto Horn, in fin dei conti, ci dice di guardare solo la copertina del libro. Tutto o niente, una brutta copertina, un brutto libro. Io non giudico il libro. Ma la copertina sì. Così come la prima impressione, credo per tutti, sia abbastanza “importante” per formulare un’opinione su una precisa persona. Se “importante” significhi “giusto” ovviamente è un’altra storia.
E perché un tratto, come la copertina, ha la sua importanza?
“Viviamo in un mondo di immagini e impressioni” potrebbe essere il detto, seppure oggi scontato, più azzeccato. Viviamo in un mondo dove ogni cosa è accelerata e le immagini sono, a mio parere, la risposta più veloce ai nostri nuovi stimoli “poco pazienti”. Non abbiamo più il tempo, o la voglia, di fermarci: detestiamo chi rallenta e premiamo chi va sempre più avanti. Si premia, diciamo, la rapidità e non sempre la qualità.
Ed ecco perché la copertina ha il suo valore. Non abbiamo il tempo di guardare tutte le trame, la copertina è molto più veloce a comunicare. Non abbiamo il tempo di analizzare subito una persona a 360° e quindi ci basta solo un tratto per decidere se quella persona ci va a genio oppure no. La copertina, la prima impressione, diventano gli unici criteri di valutazione. E quindi non mi sorprende che tutti noi affidiamo al nostro aspetto così grande importanza. E non mi sorprende che io spesso senta l’angoscia di giocarmi tutto quando conosco qualcuno di nuovo.
Quasi a chiedermi “Quale tratto sceglierà per giudicarmi, ho una buona copertina?”.
L’effetto Horn non è altro che la risposta a questa frenetica esigenza di accelerazione e rapidità. Tutto o niente e, soprattutto, “tutto e subito. Vogliamo le risposte veloci, facili, intuibili. E scegliere un tratto della personalità per “decidere la propria opinione su tutta la persona” è la via certamente più veloce per non “perdere tempo”.
Un classico esempio da “Effetto Horn”: “Le bionde sono stupide”. Altro detto che non mi piace. Il fatto che io pure sia bionda di certo non aiuta. E forse è anche il motivo per cui lo detesto.
Mi viene subito in mente un film: “La rivincita delle bionde”. Già il titolo fa capire molte cose. Ovviamente l’ho visto. Chiaramente ne sono rimasta un po’ sconcertata. L’idea che essere bionde significhi automaticamente stupide è proprio qualcosa che non mi torna, e tantomeno mi va giù. E quindi, mi chiedo: “Ma perché diamine dobbiamo avere la rivincita?”. Non la voglio la rivincita. Non voglio neanche la gara. Perché le bionde dovrebbero essere stupide? E perché gli obesi sono per forza pigri?
«Quella persona mi sta antipatica»
«E perché?»
«Non so, mi sta antipatica a pelle!»
Classico modo dire che si sente in giro. A pelle, alla prima impressione, alla sua copertina, quella persona sta antipatica. Quella persona non sa una cosa, allora è ignorante. Quella persona non ha voglia di uscire stasera, allora è sfigato. Quella persona ha le Birkenstock, allora è un hippie. L’informazione la vogliamo subito. Possiamo sacrificare la profondità, ci basta una risposta immediata.
In questo senso, gli stereotipi sono certamente la soluzione più efficace per delineare in pochi secondi una persona e, di conseguenza, quasi condannarla. Le bionde sono stupide, fine, non c’è discussione. E a noi bionde tocca pure farci bandiera di un film come quello che ho citato che non fa altro che sottolineare quanto lo stereotipo sia corretto.
Perché ci piacciono gli stereotipi?
La vita politica, artistica, sportiva non è più concepibile senza l’intromissione dei media, che cambiano la nostra relazione con lo spazio e con il tempo imponendoci, con la forza delle immagini, una certa idea del bello, del vero e del bene, e anche una certa idea dell’abituale, del solito e, a conti fatti, della norma (Marc Augé, “Che fine ha fatto il futuro?”)
Credo che queste poche righe possano riassumere il nostro tempo e il nostro modo di relazionarci con esso: l’idea di una norma, la convinzione che vi sia da una parte la normalità, intesa come giusta, e dall’altra parte il “diverso”, inteso come sbagliato.
Il bello, il vero, il bene, la norma formano lo stereotipo della nostra epoca e di ciò che, anche inconsciamente, inseguiamo. Uno stereotipo fatto di immagini, promulgate dalle pubblicità, dai media e dalla sovrabbondante rete di informazioni che ci bombardano ogni giorno.
Mi sembra quasi ovvio che in questo modo, non appena qualcosa esca da questi “schemi”, risulti subito negativo e che basti un tratto, fuori dallo stereotipo, e quindi sbagliato, perché la totalità della persona e di ciò che essa rappresenta sia in ogni caso “altro”, “fuori”, nero”.
Lo stereotipo è il bianco, è il vero, lo stereotipo è la parte positiva della coppia dei contrari. Basta un falso, un nero perché tutto diventi sbagliato.
So di avere una visione abbastanza pessimistica. Ma la mia negatività deriva, in realtà, più che da un’amara accettazione della nostra società, fatta di consumo e immagine, dalla constatazione che nessuno ne sia esente, neppure io. E l’idea che io stessa sia assoggettata da questa accelerazione, da questa tensione verso il pregiudizio e la superficialità, spesso mi sconforta. La copertina mi importa, forse più su me stessa che sugli altri, e questo mi sembra già una sconfitta.
In questo senso sì, sono pessimista.
A me piace, però, ricercare il perché delle cose. L’idea di accettare tutto non mi alletta e quindi, se devo essere pessimista, voglio almeno sapere perché: perché vogliamo tutto e subito, perché tutto è nero o bianco, perché la copertina ci piace così tanto. Perché, insomma, l’idea degli stereotipi ci attira da sempre.
L’immagine di un mondo fatto di rapidità e immediatezza mi perseguita da sempre. E ciò che spesso mi domando è se questa tendenza alla superficialità, alla rapida conclusione dei ragionamenti e delle opinioni, sia un qualcosa insito nell’uomo o sia, invece, la risposta alla rivoluzione a cui stiamo assistendo ormai da anni, protagonisti attivi e passivi allo stesso tempo e, soprattutto, molto flessibili nell’adattarci alle sue richieste costanti. Io credo ci sia un nesso tra questa accelerazione dovuta alla tecnologia e il nostro vivere per immagine e scene, per stereotipi e pregiudizi.
L’idea di una norma, invece, è prerogativa fin da sempre. E questo forse è il fulcro di ogni cosa. La presenza di una norma, la presenza di un’origine unica, la presenza di una sequenza ordinata che spieghi il tutto: la presenza di ordine è ciò che da sempre ricerchiamo. E in questo senso gli stereotipi non fanno altro che assecondare le nostre esigenze. Lo stereotipo della bellezza infonde calma: sappiamo che la bellezza è costituita da una serie specifica di tratti e non è lasciata al caso. Sappiamo che per dirci “compiuti” dobbiamo aver fatto una serie di tappe indicate, una sorta di cursus honorum per dirla alla latina. La norma ci “impone” o “permette” il percorrere un binario ben preciso e, se seguiamo le indicazioni, possiamo “felicemente” dirci “normali” e quindi “giusti”.
Tutto ciò che non rientra nel binario è fuori dalla norma e quindi per forza sbagliato.
A me piace giudicare un libro dalla copertina e le copertine belle mi piacciono tanto. Ma l’idea che un mio unico tratto, fuori dagli schemi, quindi sbagliato, basti alla società per relegarmi dall’altro lato, questo mi spaventa. Forse è meglio lasciare stare le copertine.
a cura di Milena Fantoni
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