Introduzione

Se scrivete dipendenza affettiva su Google, vi troverete di fronte a una miriade di risultati. Quasi non saprete scegliere quale sito aprire, forse vi affiderete automaticamente alla parola di Wikipedia, porto sicuro per molti di noi.

C’è una cosa, però, che accomuna la maggior parte dei risultati (almeno di quelli che ho visto io): parlano di questa denominata “patologia” con un tono asciutto, freddo e distaccato, come se il dipendere affettivamente da qualcuno fosse quasi una malattia quando, per me, è un’altra prova di quanto siamo umani e immersi nelle emozioni e nelle relazioni con gli altri.

Patologia o coraggio?

A me personalmente non piace la parola “dipendenza”. Sottintende qualcosa necessariamente negativo. Ho provato a guardare alcuni sinonimi, ma l’idea di “sbagliato” rimane: soggezione, sottomissione, inferiorità. Addirittura, ho trovato “servitù”.

Preferisco pensare che, quello che gli altri chiamano “patologia”, sia, in realtà, la capacità di alcuni di sentire una forte connessione, un forte legame che sì, può diventare doloroso, ma non per questo “inferiorità”.

È connessione, energia, la dipendenza affettiva è potenza. Significa donarsi completamente, puntare tutto su “quel numero”, a rischio di uscirne perdenti. La dipendenza affettiva, per me, non è patologia ma, al contrario, un estremo coraggio.

E chi ha coraggio spesso va incontro a molte sconfitte, questo è vero. Puntare tutto su un numero solo vuol dire essere preparati anche a scoprire che quel numero non ti vuole, è sbagliato, persino ti rifiuta. E il rifiuto non è la paura più grande solo dei cosiddetti “dipendenti affettivi”: il rifiuto io credo sia la fobia di tutti noi esseri umani. Da questo punto di vista, siamo tutti afflitti da una dipendenza affettiva.

Noi tutti siamo dipendenti affettivi

A tutti voi, quindi, voglio parlare di me come “dipendente affettiva”, una delle tante.

Già all’inizio del liceo avevo scelto di puntare tutta me stessa su un numero solo: quel numero, però, non era una persona, ma era tutto ciò che possiamo definire come “l’altro”. E “altro” può voler dire niente come tutto: ho messo la mia energia su ciò che era al di fuori di me, dal mio corpo e dalla mia mente, e per questo impossibile da mantenere sotto il mio controllo. Ho scommesso sulle emozioni, sui sentimenti, sui pensieri degli altri e quindi anche sulle idee, sui pregiudizi e su qualsiasi cosa non fosse tangibile: la mente umana, tanto la mia e, soprattutto, quella degli altri.

Sì, forse ho puntato il numero più rischioso.

Proprio per questo, per tanti anni, mi sono condannata e ho cercato di “guarire” da questa terribile malattia. Per anni mi sono ripetuta sottovoce di non dare importanza al giudizio degli altri e «La tua felicità non può dipendere se non da te». Mi sono ossessivamente detta più volte «Non puoi controllare tutto e tutti».

Mi ricordo che spesso stavo intere giornate sui motori di ricerca (Avevo ancora l’ingenua convinzione che loro tenessero in pugno la verità). Volevo assolutamente trovare una definizione al “mio problema”. Era un po’ come se volessi avere un certificato da mostrare a tutti per giustificare il mio dolore e quindi essere accettata: “Ecco sono depressa, vedete! È normale che io sia così!” per fare un esempio. Ne ho trovate di tutti i colori: ipersensibilità, depressione, borderline e sì, mi ero anche imbattuta nella famosa dipendenza affettiva. Ecco il certificato con cui mi sarei potuta presentare al mondo. Peccato che, proprio nel momento in cui avevo trovato una giustificazione plausibile, ho deciso di non volermi appiccicare quell’etichetta addosso.

È in quel momento che ho invertito la mia rotta.

Cosa significa essere coraggiosi?

Essere una dipendente affettiva può volere dire tante cose. E no, non voglio dire che sia tutto zucchero e canditi, come alcuni dicono (Che poi cosa significa io non l’ho mai capito). La vita per quelli come noi (Tutti?) è più simile a un quadro di Jackson Pollock: un vero macello.

Sì, do molta importanza al giudizio degli altri, come se quello dovesse definire la persona che sono. Sì, sto attenta a tutti i segnali, corpo e parole, alla ricerca di un indizio che possa dirmi se vado bene oppure no.

Sì, mi basta una critica per cadere nel panico e il più delle volte le critiche me le immagino da sola.

Sì, ho sempre bisogno di certezze e di rassicurazione da parte degli altri.

Sì, ho letteralmente il terrore di essere rifiutata e abbandonata.

Proprio come Pollock, un gran bel casino.

Qualcuno potrebbe dire «Rilassati un po’!». Alcuni addirittura mi hanno detto di essere egoista. Ma, come vi ho detto, io ho cambiato rotta. E questo non significa mandare a quel paese gli altri e i loro pensieri. Mi piace più l’idea di inquadrare ogni cosa al posto giusto e secondo il suo peso.

Un mondo fatto di contrari e la possibilità del giusto mezzo

Spesso il contrario della dipendenza affettiva potrebbe, in modo fuorviante, essere associato a quello di distacco, rigidità, freddezza. Proprio come gli articoli che ho citato all’inizio, in fin dei conti (Ci sarà un motivo?). Sarà che nella nostra società c’è un bisogno innato di trovare sempre il contrario di tutto o il complementare dell’altro. Viviamo in un mondo in costante ricerca di coppie: se non è nero è bianco, se non è ricco è povero, se non è intelligente è stupido, se non fa ridere è noioso. O uno o l’altro. Il “giusto mezzo” lo abbiamo dimenticato, ma forse è proprio lui che dovrebbe essere valorizzato. E forse quello di cui abbiamo bisogno tutti noi è semplicemente cambiare punto di vista, vedere cosa c’è dall’altra parte. Per essere estrema, forse dovremmo cambiare forma mentis.

Una nuova forma mentis

Proviamo a rigirare le parti e facciamoci delle nuove domande.

Quella ragazza non è simpatica. Ma non è che forse non la conosciamo abbastanza, forse è timida o, magari, ha semplicemente avuto una brutta giornata?

Quel ragazzo sembra proprio stupido, ma magari quell’argomento di cui io sono un campione lui non ne sa niente. Ho provato a cambiare argomento? Chissà se mi scopro ignorante io e lui campione.

Quella ragazza è dipendente dagli altri? Forse sì, ma anche più empatica di tutti e dà un valore alle parole, alle opinioni e forse conserva ancora la speranza che il linguaggio, del corpo e delle parole, abbiano un valore.

Preferisco pensarla in questo modo, piuttosto che seguire quello che spesso mi sono sentita dire nel tempo: accettare. Non voglio accettare quello che non mi piace, sembra dire che devo arrendermi a “ciò che sono” anche quando non ne sono felice. Mi piace pensare che la soluzione migliore sia quella di cambiare punto di vista, strategia, forma mentis.

Fino a poco tempo fa mi sono sempre fatta le stesse domande. Sarò stata simpatica? Ho fatto una figuraccia? Si è stufato di me? Sono noiosa? Non sono mai abbastanza?

Le risposte direi che sono abbastanza intuibili: bianco o nero, vero o falso, tutto o niente. Un mondo di contrari.

Poi ho trovato il certificato, dipendente affettiva. Proprio in quel momento ho deciso di cambiare le mie risposte. 

Sarò stata simpatica? Magari non a lui o lei, ma c’è sempre il prossimo.

Ho fatto una figuraccia? Magari sì, però hai fatto ridere e sei stata spontanea.

Si è stufato di me? E tu invece provi sempre lo stesso?

Sono noiosa? Oggi non sarà giornata.

Non sono mai abbastanza? Forse non per lui o lei, ma non demordere.

Conclusione

Mi piacerebbe concludere con un aneddoto. Credo che le parole siano esse stesse potenza, ma penso anche che una narrazione, perché sia efficace, debba essere fatta anche di evocazione, immagini. Come ho detto in apertura dell’articolo, io ho volutamente deciso di dare a questo testo un taglio non freddo e distaccato, ma empatico e, forse, emotivo, in modo che tutti voi possiate (Questa è la mia speranza) immedesimarvi e così non pensare di essere “malati”, come io stesso ho pensato per così tanto tempo.

Un giorno di qualche mese fa sono uscita con un ragazzo. Come sono solita a fare, prima di incontrare una persona nuova (E questo ragazzo non lo avevo mai visto in vita mia), cerco sempre di convincermi e mi dico “Rimani distaccata, non andarci sotto, fatti desiderare, non raccontare tutto di te ma mantieni un alone di mistero”. Inutile dire che il mio proposito sia andato in frantumi dopo neanche un’ora, quando ci siamo ritrovati entrambi a parlare di noi e del nostro passato.

«Brutta mossa!» mi direbbero in molti. E devo dire che anche io, all’inizio, volevo seppellirmi.

Sapete cosa mi ha detto quel ragazzo?

«Tu sì che mi capisci. È la prima volta in vita mia che parlo dei miei problemi a qualcuno. Figuriamoci con una sconosciuta».

Forse essere ossessionati dall’altro non è poi così una condanna. Forse ho puntato il numero giusto.

a cura di Milena Fantoni