Parole dette con noncuranza, parole che mentono e fanno soffrire, parole che disturbano, che scuotono, che fanno sorridere, parole che cambiano la vita.

In una sola parola possiamo intravedere un’intera esistenza, un modo di essere e di stare nel mondo. In una sola parola, diciamo: “Io sono”.

Da anni vivo immersa nelle parole e con esse ho plasmato la mia persona e il mio modo di percepire ciò che mi circonda. Navigo tra le parole degli altri, immergendomi nei libri e ascoltando le loro voci, e do spazio alle mie scrivendo chi sono e chi voglio essere su una pagina bianca.

Per questo, per me, le parole non possono essere dette con noncuranza e indifferenza, ma ognuna di loro ha un peso e può scatenare infinite risposte.

Una sola parola è in grado di determinare il mio stato d’animo e allo stesso tempo il mio stato d’animo lo comunico tramite le parole.

È una strada a doppio senso: da una parte ci sono io con le mie emozioni contrastanti, dall’altra c’è il mondo a cui voglio comunicare e che mi risponde con altrettante parole che ritornano da me e, in un circolo vizioso, suscitano in me nuove emozioni e nuove parole. In fondo, proprio questo significa comunicare: un emittente, un ricevente, un canale e, infine, il mezzo, il nostro linguaggio.

Mi piace pensare che, attraverso le parole scritte, io riesca a comunicare ciò che dentro di me vive in modo caotico e confuso. I pensieri sono flussi di coscienza, non hanno un ordine razionale e saltellano avanti e indietro, nel passato e nel futuro, solo tramite collegamenti casuali e non pertinenti.

Le parole, finché rimangono nella mia mente, non hanno una consistenza definitiva e decifrabile. Ribelli, si aggrovigliamo e non trovano, o forse non vogliono trovare, un posto fisso.

È per questo che mi piace dar loro un ordine sulla pagina bianca, metterle al posto giusto e con un mio criterio, per far sì che quel caos nella mia testa acquisisca un senso per me in primis e poi anche per gli altri (Possibilmente).

Non penso solo alla scrittura; la parola anche solo pronunciata a voce prende forma tangibile una volta uscita dalla mente. È come se il cervello fosse un grande cassetto di vestiti disordinato (Almeno, il mio cassetto è molto disordinato): solo quando li tiri fuori li puoi vedere chiaramente, puoi scegliere e dar loro un senso e una ragione.

I vestiti che scelgo quel giorno comunicheranno un po’ più di me e così anche le parole che deciderò di voler lasciare andare libere fuori dalla mia mente. Proprio come quell’abito, le parole quel giorno diranno chi sono.

Per questo forse ho un’ossessione con le parole. Le custodisco quasi gelosamente e ho cura di usarle nel modo e al tempo giusto, in modo tale che non possano essere fraintese e così neanche io.

Possiedo le mie parole preferite, ho quelle che preferisco evitare, e ci sono anche quelle che tengo in serbo per un momento importante. Ogni parola del mio cassetto ha un suo ruolo ed è pronta per essere pescata nel momento giusto.

E il momento giusto lo scelgo io, questo è un po’ il mio piccolo potere su di esse, o almeno così mi piace credere.

Ognuno di noi ha bisogno di comunicare, è un bisogno umano e dirlo è abbastanza scontato. Comunichiamo appena ci svegliamo, anche solo per chiedere un caffè, e comunichiamo quando andiamo a dormire, anche solo per bisbigliare una buonanotte.

E così, giorno per giorno, tiro fuori dal cassetto una manciata di parole che so che mi saranno di aiuto. Ovviamente non è così razionale. Io amo le cose ordinate e razionali, mi piace dare un senso al tutto e che ogni cosa abbia una sua risposta e soluzione.

In questo senso forse avrei dovuto darmi alla matematica. Lì ci sono teorie e formule e non si rischia di cadere nel vuoto. Amo le cose ordinate e razionali, ma la mia mente (e non credo solo la mia) è tutt’altro che qualcosa di definito e scomponibile in parti più semplici, così come, in fin dei conti, è la vita stessa.

E quindi una manciata di parole potrebbe non bastare, oppure potrebbe essere troppo, o addirittura (Spesso) non quella giusta.

Come stai, ti vedo giù di morale, sei pesante, non ne ho voglia, ti voglio bene, ti amo, mi sento solo, ho fame, ho sonno, abbracciami, devo studiare, manca il latte in frigo.”

Un po’ come quel vestito elegante, quello che non esce quasi mai dall’armadio, ma aspetta il momento giusto, ci sono quelle parole che tardano a farsi scoprire. L’abito lungo non lo posso mettere tutti i giorni, se no il giorno della festa non avrà un gran valore.

Alcune parole non le possiamo dire sempre e così, immerse tra quelle che sembrano funzionare tutti i giorni, rimangono nascoste. È lì che sta il loro valore: non sono per tutti, non sono per ogni giorno e per qualsiasi luogo e momento.

Non sono brava a dire parole “così per dire”, e non mi piace neanche ascoltare le parole “così per dire” degli altri. 

Sarà perché ho dato alle parole e alla scrittura un ruolo importante nella mia vita, o sarà che sono troppo sensibile e fragile: le parole, mie e degli altri, io le ricordo sempre e spesso mi trovo ingarbugliata nei miei pensieri circolari in cerca di dare un senso e un significato razionale a ciò che ascolto.

Ed è proprio per questo che, poi, finisco per buttarle giù su un foglio. Lì finalmente ritrovano il loro posto e acquisiscono valore.

In questo periodo particolare, durante la quarantena, abbiamo avuto l’occasione di veder venire meno tanti di quegli elementi capaci di rappresentarci nel mondo e tra le persone.

Per tre mesi sono rimasta in pigiama, senza trucco, ho mangiato da sola e sola ho dormito nel mio letto. Le espressioni, il mio vestire, sorridere e aggrottare le ciglia non potevano più aiutarmi: tutto ciò che usavo per comunicare “senza comunicare direttamente” non aveva più senso.

La parola, però, quella è rimasta, seppure in una veste differente. E credo che proprio in questo periodo la sua importanza sia uscita fuori.

Non c’era contatto, se non per video, e quindi anche tutte quelle espressioni che fanno da contorno al nostro linguaggio hanno perso importanza e consistenza. C’era solo la parola e lei solo aveva ora il potere di dire “Io sono”. A noi, invece, la possibilità di usufruirne nel modo giusto e nel giusto momento.

Abbiamo dovuto tutti fare i conti con questo nuovo modo di comunicare, a questo nuovo modo di dare forma ai nostri pensieri e emozioni.

Durante questo periodo ho scritto tanto, forse troppo, perché nel silenzio della casa, lontano dai rumori della strada e dei pensieri e parole degli altri, avevo solo la mia voce a cui dare forma. E da lì ho capito: una parola detta “così per dire” è una parola persa.

Viviamo in un mondo in cui le parole hanno cambiato il loro ruolo. Ne siamo sempre invasi, dalle pubblicità, la televisione ai social. Ma tutto si è ridotto: la parola deve essere istantanea e veloce, subito decifrabile e spesso vuota di senso.

Scrivere un post su Instagram ha più valore di una pagina di diario, il nostro nuovo modo di comunicare non prevede un’autoanalisi ma la diretta ricezione. Non per forza tutto ciò deve essere negativo, forse bisogna solo rendersene conto e utilizzarlo nel modo giusto.

Se adesso scrivere pagine lunghe e fitte non ha più valore, forse dobbiamo trovare il modo per cui una sola parola racchiuda tutto quello che prima malapena entrava in un romanzo intero.

Un dubbio mi ha sempre assillato fin da quando ero piccola: definirci attraverso il nostro nome. Mi spiego meglio: vi presentate con una persona nuova e vi è il classico momento del “Piacere io sono”.

Stiamo dicendo chi siamo, “Io sono”, e dire il proprio nome è un po’ come il primo momento e forma di presentare la nostra identità. Mi piace pensarla così. Però non vi capita mai, in quel momento, di essere così concentrati a dire il vostro nome che quello dell’altro neanche lo ascoltate?

Non so se questo possa significare qualcosa: qualcuno potrebbe dire che siamo tutti egoisti e non ci interessa dell’altro. Io invece penso più ad un’altra cosa: abbiamo così grande urgenza di definirci, darci un nome e un’identità e di mostrarla all’altro, che perdiamo di vista tutto il resto.

E tutto questo, secondo me, inizia sempre dallo stesso minimo comune determinatore: la parola. Lei è il nostro primo e più importante strumento per definire noi stessi.

Mi piace sperare che un “Ti voglio bene” significa ancora affetto e che se uno mi chiede “Come stai” lo voglia sapere veramente. Alla fine dei conti, oggi, non è neanche più così scontato.

A cura di Milena Fantoni